Moto
Bologna - Krabi, Ao Nang - Il diario di bordo
Scritto da davide - Pubblicato 28/05/2004 12:50
Una bella storia di moto e di viaggi

Tutto cominciò quella volta che incontrammo i ragazzi di Frittomisto. Tre dei ragazzi di Frittomisto erano partiti da Marina di Romea con una barchetta di 7 metri, ed in 2 mesi e mezzo avevano raggiunto Krabi, Ao-Nang in Tailandia, attraversando mari ed oceani burrascosi e dove avevano realizzato il mitico Frittomisto villa con tanto di sito internet, 2 piscine & jacuzzi. Villaggio turistico incantato sulla collina, l’esclusiva zona alta con splendida vista sulla baia. Arrivarono completamente coperti di sale. Era praticamente impossibile, per noi vecchi motard di rally africani, non collegare le cose e non sognare di fare lo stesso percorso però via terra, ed in moto ovviamente. Così nel giro di poche settimane il sogno divenne un pensiero fisso, di quelli che non riesci più a toglierti di mente e ti assilla giorno e notte, fino a quando ti rendi conto che la cosa sì, si può fare. E quindi cominci a concretizzare; primo pensiero: che tipo di moto. Dovevano essere assolutamente delle vecchie Honda XR 600 R, compagne di tante nostre avventure africane, purtroppo anche di qualche tragedia, che amavamo e conoscevamo perfettamente, così siamo partiti alla ricerca di 4 moto giuste ( perché ormai era sicuro che saremmo partiti in 4 ) ed iniziammo febbrilmente a prepararle. Parallelamente iniziò lo studio del percorso, l’identificazione degli Stati da attraversare, e quindi l’avventura di contattare le varie ambasciate nel tentativo di ottenere i visti di ingresso; e poi le autorizzazioni all’espatrio per i non proprietari dei mezzi, i carnet de pasage emessi dall’ACI e le relative fidejussioni emesse dalle nostre banche, e poi i libretti e le patenti internazionali, alcune vaccinazioni e così via;.. da uscirne pazzi. Siamo partiti all’alba di un sabato mattina d’agosto gustando finalmente rilassati il rombo costante delle nostre 600 a cui avevamo ottimamente allungato i rapporti; prima tappa Budapest, che abbiamo raggiunto alle 7 del pomeriggio e lasciato la mattina successiva ancora all’alba e le moto filavano che era un piacere per le belle strade Ungheresi, dritte e sgombre. Appena entrati in Romania, senza grossi problemi con la polizia di frontiera, subito il fondo stradale è cambiato, divenendo ricco di buche, dossi e gibbosità e raggiungendo il massimo ai primi valichi dei monti Carpazi, con effetto staccata del rettilineo di partenza di una pista di motocross. Ma per noi, con quelle moto, era Grande Libidine. All’una del pomeriggio, tra i passi Carpazi, Mauro nota una preoccupante perdita di olio dalla testata della sua 600 e una volta fermati, tra lo sconforto generale constatiamo l’allentamento della testata con probabile lacerazione della guarnizione di testa; non abbiamo la chiave dinamometrica, né una guarnizione di testa di ricambio, attorno a noi rocche montuose strane con sospetti manieri dalle strane torri aguzze, che ci ricordano con qualche brivido di essere molto vicini alla Transilvania. Poi uno dice la sfortuna, si fa presto ! E invece no; siamo lì con la moto già tutta smontata dalle sue carenature e dai suoi serbatoi ( 60 litri che ci permettevano 500 km. di autonomia ) che arriva un tipo con maglia Ktm. su moto Java 250 del 74, forse 76, e ci chiede cosa è successo, perché certi suoi amici lì vicino, avevano in garage tutto quello che ci occorreva, chiave dinamometrica compreso. Con un filo di speranza lo seguiamo ed una volta arrivati constatiamo la sincerità del nostro amico, ed iniziamo subito il lavoro. Richiuso il motore, ringraziati gli amici motociclisti Rumeni, ripartiamo quasi al tramonto con l’intenzione di recuperare il più possibile il tempo perso viaggiando di notte, forti di certi fari lenticolari che avevamo montato al di sotto delle nostre carene. In effetti i fari non andavano poi male, solo che non c’era nulla da illuminare, in quanto la strada, con il suo bel fondo da pista di motocross, al buio letteralmente scompariva, priva com’era di striscia bianca e catarifrangenti; il suo colore era lo stesso del terreno circostante ed i nostri fari illuminavano un nulla. A mezzanotte, dopo aver sbagliato un centinaio di curve, sfiniti dalla tensione del viaggio alla cieca, abbiamo saggiamente deciso di fermarci per la notte in uno strano paesino in cima ai monti, ancora con uno strano vecchio castello dalle preoccupanti torri a punta il cui portone, quando dopo molte nostre insistenze qualcuno ha aperto, ha lacerato il silenzio con un gelido scricchiolio. Strane e sospette collane di aglio pendevano dalle pareti. Il paesino era deserto nel buio della notte. In questi viaggi, la prima cosa che si pensa al mattino è se la moto sia ancora lì. Erano ancora lì e la loro vista ci riempiva di buonumore. Ripartimmo quindi decisi ad arrivare a Odessa in Ucraina e fino al confine con la Moldavia tutto è divenuto complesso. Entrati in Moldavia sono iniziati i guai, o meglio, non proprio i guai, i fastidi, che ci avrebbero accompagnato per tutto il resto del viaggio: le appiccicose Forze dell’Ordine ex Bolsceviche tipo Vopos – Kgb, alle quali noi poveri turisti – motociclisti occidentali non siamo proprio abituati. In effetti la Moldavia, al di là dei Ghestapos, già per conto suo è un paese diciamo, originale; grande strada deserta, 150 km senza un’auto, nè un cartello, nessuno, poi di colpo una trincea di sassi attraversa la strada e al di là di essa una fossa di 2 metri fonda 2, …e subito arriva il vopos che ti chiede 10 dollari, così, come un’elemosina, e tu che ti stai riprendendo dal panico da staccata alla morte con doppio derapamento carpiato per non finire nella fossa lo guardi indeciso tra il riso e il pianto disperato. Proseguendo in una specie di pista ad ostacoli e tombini di un metro aperti, arriviamo all’ennesimo posto di blocco, dove dopo averci chiesto di esibire tutti i documenti possibili a cui non danno nemmeno uno sguardo, dopo aver trattato con il kaghebe fino a 2,5 dollari a testa la gabella di turno, dopo aver perso almeno un’ora, 10 metri più avanti ( giuro, 10 metri ) dei vopos con un colore della divisa diverso ci rifermano e ci dicono: “ dogana “, in russo naturalmente, che non so neanche come si dice. Naturalmente non è servito a molto cercare di fargli notare che frontiere all’interno della Moldavia a noi non ne risultavano e che non sapevamo neanche in che strano paese stessimo per entrare; anche loro hanno preteso di visionare tutti i nostri documenti ( senza guardarli naturalmente ) e alla fine anche a loro abbiamo dovuto dare la consueta decina di dollari. Persa un’altra ora. Di queste soste abbiamo dovuto subirne una dozzina, due degne di nota; la prima, - ci fermano i kgb e ci dicono di entrare in uno stanzino a guardiola vuoto e arroventato, dove una decina di vopos sonnecchiano appoggiati a vecchi mobili in stile realsozialism, poi uno di loro tira fuori tutto un armamentario di registri e bolli e moduli ed infine ci fa pagare 10 dollari per la tassa per l’ecologia, ( giuro, per l’ecologia ); la seconda, - ancora il kaghebe di turno ci ferma questa volta a pochi passi dalla frontiera, vera, con la Ucraina e ben armato ci chiede, coadiuvato da civili sghignazzanti, la carta verde, dove possiamo constatare che quella strana provincia della Moldavia che loro chiamano il loro stato indipendente non è ovviamente compresa nella lista dei paesi coperti dall’assicurazione: 10 dollari. Alla frontiera, vera, con l’Ucraina le cose non vanno tanto meglio; usciamo a mezzanotte, dopo aver riempito una ventina di moduli e contromoduli che sono stati tutti adeguatamente firmati e controtimbrati da squadre di nullafacenti in divisa e tra sciami di enormi zanzare; ad Odessa arriviamo alle 3 di mattina. I ristoranti degli alberghi dell’est, dove consumiamo striminzite prime colazioni, ricordano i refettori delle colonie estive anni 50, dove da piccoli passavamo le vacanze estive; nel torpore del mattino gli odori, gli echi di chiacchiericci negli enormi stanzoni vuoti e l’inflessibilità e il disinteresse delle cameriere, anche loro un po’ vopos ci fanno tornare bambini. Ma la mattina, il caffè vero è la vista delle moto, e constatare che hanno passato indenni anche l’ultima nottata. Tolti lucchetti e catene, un rapido controllo all’olio e all’usura dei pneumatici che degradano di circa un millimetro ogni 1000 km, ed è subito chiaro che prima di entrare in Cina ed affrontare i passi Himalaiani dobbiamo trovarne dei nuovi. Partiamo in direzione Rostov na Donu, in Russia, proprio dove avevamo sentito alcuni giorni prima di partire al telegiornale che alcuni terroristi erano stati trovati morti in un albergo (senz’altro il nostro, ovviamente ) perché si erano rovesciati addosso, sembra senza volere, alcune provette contenenti batteri trafugati in una base militare Russa e contagiando di seguito in modo mortale una ottantina di persone. Una bella cosina graziosa. Corroborati da questo gaio pensiero attraversiamo interminabili colline coltivate a girasoli che ci accompagnano per tutta la giornata; un infinito mare verde punteggiato di giallo che avrebbe sconvolto Ligabue, interrotto ad intervalli di 20 km. da monumentali quanto diroccati portali ancora in stile realsozialism, che segnalavano i vari ingressi dei Kolkoz che coltivavano quelle aree. Arriviamo alla frontiera Russa al tramonto e Rostov dista solo 150 km., ma alla dogana timbriamo bolli e riempiamo moduli per 4 ore e mezza, e una volta entrati in Russia cominciamo a trovare i primi niet sulle pompe di benzina, e naturalmente cominciamo a rimanere a secco, così all’albergo infetto di Rostov arriviamo alle 3 di notte dove a quell’ora ovviamente non è possibile mangiare nulla, e siamo già fortunati ad ottenere le chiavi delle camere ( camere che abbiamo prenotato e pagato dall’Italia, condizione imprescindibile per ottenere il Visto d’ingresso ) ottenuta la quale Cesira scompare subito su per le scale con una busona formato matriosca dalle tette a tubo. Noi invece andiamo a letto soli e staccato il telefono dopo la 5° proposta di non meglio specificate forme di collaborazione di altre signorine locali, inizia il via vai direttamente nei corridoi, in quanto dette signorine sembrano non voler rinunciare ad erogare i loro servizi. La tappa successiva per Volgograd è breve, meno di 500 km, ancora di immenso mare di girasoli, e alle 3 del pomeriggio siamo già nel cortile dell’albergo prenotato–prepagato alle prese con una generale manutenzione delle nostre 600 e delle signorine locali che, organizzatissime, giungono fin nel cortile ed iniziano a massaggiarci durante la manutenzione. Cesira, pur ancora allo stremo per la matriosca della notte precedente, perde immediatamente la testa e riscompare con 2 slave inciampando, in un tappeto finto tipo caucasico. L’albergo realizzato apparentemente nella seconda metà dell’800, è ancora molto bello e porta i segni evidenti di un antico splendore che ricorda la vecchia nobiltà russa alla Dottor Zivago. I corridoi si congiungono in salotti ovali e lo stile dei mobili e dei tappeti è consono al periodo, anche se sono copie recenti fatte a macchina. La hall ed il salone ristorante è davvero bello e ben attrezzato di numerose signorine sole ben distribuite in tutte queste salette. Riusciamo dopo tanto tempo appena a cenare, quando siamo letteralmente investiti, ospiti quasi unici dell’albergo, da un nugolo di signorine di tutte le età assolutamente decise a concludere. Quindi rapida ritirata in camera, barricata la porta, staccato il telefono e amen. Prima di dormire ci ricordiamo che quel giorno doveva esserci stato l’eclissi totale, ma impegnati nella guida non ci eravamo accorti di lui, poi non sapevamo bene a che ora doveva essere, non sapevamo neppure esattamente quale fosse il fuso orario locale e ci siamo addormentati un po’ dispiaciuti. Cesira non deve essersi addormentato per niente, dalle occhiaie che aveva la mattina dopo. Quando il sole è sorto eravamo già sulla strada; la tappa quel giorno era di quasi 900 km e in più dovevamo attraversare la frontiera del Kazakstan. Il fresco del mattino ha subito lasciato il posto ad una giornata calda ed afosa. Attorno il paesaggio era completamente cambiato, i girasoli avevano lasciato spazio alla steppa, una infinita distesa di terriccio misto a sabbia chiara dal quale sbucavano radi cespugli, bassi e irsuti. Continuano i cartelli niet ai distributori di benzina e continuano, ovviamente, i controlli di polizia da 10 dollari. All’ultimo di questi il poliziotto per intimorirci, ci spiega naturalmente in russo, che qualcosa non va nei nostri visti e che se non andiamo immediatamente all’ufficio immigrazione di Astrakan a sistemare tutto rischiamo l’arresto, e ci mostra i polsi uniti in un soave gesto. E’ l’una del pomeriggio e la temperatura è di quasi 40 gradi, dentro le nostre tute con stivali ecc. la trattativa con l’ennesimo vopos ci appanna e sfianca e ci caschiamo. Dopo aver vagato per Astrakan alla ricerca dell’ufficio immigrazione e dopo averlo trovato con l’aiuto di un taxista, siamo avvicinati da un funzionario che ci spiega che la situazione è grave e che dobbiamo seguirlo in auto con lui dall’altra parte della città. Ci caschiamo ancora, ma solo in parte, e dopo una lunga trattativa accettiamo di seguirlo solo in 2, mentre gli altri 2 restano con le moto. Alle 6 del pomeriggio finalmente ritornano, accompagnati da 2 diversi e giovani funzionari che mi spiegano in un buon inglese di come ovviamente avevamo subito una truffa, costata solo 150 dollari dai 500 chiesti inizialmente, che poi tutto sommato era andata bene in quanto avevamo salvato i passaporti, trattenuti in un attimo di lucidità prima che il funzionario-truffatore si dileguasse abbandonando i miei 2 amici nel centro di un ufficio sconosciuto di una città sconosciuta, …ed anche le moto. I 2 giovani funzionari hanno cercato, scusandosi, di spiegarci che in Russia non tutti erano truffatori, e che qualcosa stava cambiando, o almeno loro ci credevano davvero e li abbiamo lasciati ringraziandoli. La mia moto e quella di Mauro a quel punto hanno iniziato ad avere problemi di accensione. Partiamo infine con il pensiero già alla vicina frontiera con il Kazakstan che abbiamo raggiunto e superato alle 11 di sera dopo la tradizionale montagna di controlli e timbri e moduli, e gabelle, dopo aver attraversato il delta del Volga tra dune, traghetti e paludi durante le quali la mia moto ha cominciato a tossire sempre più. Atyrau, la città che dovevamo raggiungere, dove c’era il nostro hotel prepagato, distava circa 400 km. e appena lasciata la dogana nel buio, la strada asfaltata ( si fa per dire ) è scomparsa, lasciando il posto ad una pista indefinita di terra e sabbia, fortemente deformata dai Tir; tutt’intorno il nulla chiamato steppa. E qui la mia moto ha deciso di fermarsi. La temperatura era fresca e gradevole, e una leggera brezza muoveva i radi cespuglio attorno a noi nel silenzio e nel buio più totale. Cambiata la candela con l’aiuto di Mauro ( la persona più giusta in queste occasioni ) abbiamo constatato che il guaio era di diversa origine, statore o centralina che avevamo di ricambio, e mentre ci accingevamo alla sostituzione è arrivato un enorme camion il cui autista, in un buon inglese ci ha informato che era pericolosissimo fermarsi in quanto la zona era infestata da bande di fuoriusciti dalla guerra civile del Tajikstan che depredavano i passanti, e si è offerto di trasportarmi gratuitamente all’albergo di Atyrau dove ci consigliava di effettuare la riparazione in sicurezza. In cabina erano in 4 tutti kazaki, tutt’attorno la steppa desertica nel buio della quale sono presto scomparse davanti a me le 3 moto superstiti . Quando mi hanno svegliato era l’alba e il buon camionista mi ha offerto un caffè e una frugale colazione al kiosk di sua figlia. Mi ha lasciato all’albergo rifiutando assolutamente i miei dollari e dicendomi che se proprio volevo fare qualcosa per lui, bè, che fossi arrivato fino a Krabi ! L’ho salutato con un abbraccio. Nel cortile dell’albergo c’erano, provate, le tre 600, il motore era ancora caldo. L’albergo, unico di Atyrau, era stato realizzato all’interno di un ex centro di comando USA abbandonato dopo la fine della guerra del golfo. Era gestito da scozzesi che ne avevano ottenuto, all’interno, un accogliente 4 stelle, da 150 dollari/notte. I clienti erano esclusivamente tecnici petroliferi europei e americani che sondavano il terreno vicino in cerca di petrolio, sembra con successo. Dopo un rapido consulto ci siamo resi conto della situazione difficile; avevamo davanti 3 ore buone di lavoro per far ripartire le moto, e dovevamo assolutamente uscire dal Kazakstan, attraversare l’Uzbekstan, poi il Kyrgyzstan ed entrare in Cina entro i tre giorni per i quali avevamo ottenuto il visto. Davanti avevamo 1.500 km di deserto con l’oasi di Tasauz a metà strada e poi Samarcanda; di là era quasi Cina. Decidemmo di fare un gruppo per la riparazione delle moto, ed io alla ricerca di un camion che ci portasse a Tasauz viaggiando anche tutta la notte, dove avremmo potuto arrivare la mattina successiva con le moto a posto, il pieno e riposati ( si fa per dire ), pronti a proseguire il viaggio e rispettando i visti. Il primo camionista quando gli abbiamo comunicato il percorso è salito in camion ed è sparito senza salutare. Il secondo, un ragazzo giovane e sveglio, al quale avevamo offerto fino a 600 dollari, ci ha spiegato che lui ne guadagnava massimo 100 al mese, ma che non poteva fare quella strada nel deserto in quanto ci avrebbero tutti uccisi, e non forse, ma sicuro. Quella era l’area maggiormente battuta dai fuoriusciti della guerra civile del Tajikstan, molti di essi erano in divisa da poliziotti e chi si azzardava ad attraversare il deserto in quel punto lo faceva in convoglio, una volta la settimana con scorta di miliziani armati che sparavano a vista. Ormai verso sera, tentammo quindi di imbarcare noi e le moto su di un treno che alle 10 di quella sera passava da Atyrau ed arrivava a Samarcanda 2 giorni e 3 notti dopo, quindi ancora in tempo per i nostri visti. Siamo quindi partiti in moto con armi e bagagli per cercare la stazione che al buio non era poi così facile trovarla in quanto non c’erano segnalazioni. Nelle sue vicinanze c’era il marasma più totale con via vai di facce incredibili, tagliagole, ubriachi ecc, di biglietti non c’era verso di riuscire a comprarne. L’estenuante trattativa con il boss della stazione ha portato ad una tangente di 100 dollari per entrare e prendere il treno, ma biglietti niente. Quando il treno è arrivato, con 3 ore di ritardo, lo spettacolo è stato devastante. Dall’interno assolutamente buio delle carrozze tra un brulicare di ombre uscivano grida ed imprecazioni, i finestrini, divelti da tempo, erano sostituiti con lamiere e cartoni, qualcuno aveva tondini in ferro piegati a mano e saldati all’esterno, da cui uscivano braccia e gambe pigiate. Subito sono nate feroci risse tra i presenti sul treno e chi cercava di salire infilandosi dai finestrini senza sbarre. Le porte erano barricate dall’interno e nessuna si è aperta. Del vagone merci nessuna traccia. Non abbiamo potuto prendere quel treno. Siamo quindi usciti mestamente dalla stazione, cominciando a realizzare che il nostro viaggio finiva lì, e che non c’erano condizioni per continuare. All’uscita una ragazzona alta, robusta ed in divisa con tanto di gradi mi ha avvicinato e dicendomi dasfidania mi ha restituito i 100 dollari. Gli ho risposto spaziva e l’ho abbracciata come avevo fatto con il camionista. Fuori dalla stazione la mia moto aveva ancora problemi, più o meno come le altre in quanto essendo motori quasi da competizione non accettavano assolutamente la benzina locale, mista a acqua e nafta. Prima di arrivare all’albergo anche la moto di Mauro si è spenta, e senza fermarci l’ho spinta direttamente fino all’albergo, dove siamo arrivati alle 2 dopo la mezzanotte, con il visto ormai scaduto e poche idee e ben confuse in testa, e dove abbiamo incontrato Alberto. Alberto era un geofisico dell’Eni che ci ha assistito e guidato nelle peripezie dei giorni successivi nei quali abbiamo dovuto estendere il nostro visto evitando l’arresto, trovare un corriere per l’Italia in grado di rimpatriare le nostre moto, fare un atto notarile che delegasse una sua amica Kazaka allo sdoganamento delle quattro 600 ed infine togliere dai nostri passaporti la loro nota di entrata, per poi trovare 4 biglietti per la locale compagnia aerea ( ! ) con direzione Mosca. Una cosina da nulla. Atyrau una volta si chiamava Gurjef, era un enorme campo di lavoro più o meno forzato voluto da Stalin nel quale erano stati deportati cittadini a migliaia da tutte le regioni dell’Urss. In una squallida area di alcuni chilometri sorgevano sordide baracche diroccate ed ammassate in disordine le une alle altre ed il loro grigiore si confondeva con quello della steppa in una allucinante continuità. Era quella la zona dove inizia la depressione che porta al lago d’Aral, o a ciò che di esso resta; per una serie di scelte politiche scellerate è stato deviato il corso dei fiumi che lo alimentavano, ed esso si stà via via prosciugando. Relitti di imbarcazioni giacciono a km. di distanza dalla riva che continua a ritirarsi e il suolo è composto da una micidiale miscela di veleni non biodegradabili; DDT, diossina, anticrittogamici micidiali ed ogni quant’altro bandito in occidente ormai da anni, è stato portato dai fiumi e si è depositato sul fondo del lago in strati di diversi cm. che ora, allo scoperto, viene alzato e portato dal vento nelle case ed ovunque, per la gioia e il benessere dei cittadini tutti. Nel centro di Atyrau ci sono i palazzi governativi che chiamare fatiscenti è un gentile complimento. Realizzati negli anni 30-40, hanno i muri in pietra a vista in stile diroccato, dalle aperture per le porte e le finestre fuoriesce il tondino del cemento armato, al quale viene saldato direttamente un telaio in ferro assolutamente arrugginito ed adattato a mano che sostiene la porta o la finestra in ferro o legno, assolutamente non verniciati e di solito generalmente bloccati. Entrando lo sfacelo aumenta ed in più appaiono divisioni e camminamenti forzati tipo gabbie, fatti in tondino di ferro piegato e saldato dai quali nuguli di cittadini urlanti chiedono permessi, autorizzazioni, licenze ecc, venendo immediatamente vessati a dovere. A quanto pare occorrono permessi per tutte le cose; e ottenerli non è sempre facile e comunque vanno pagati e sottobanco naturalmente. Nuguli di vopos, o se preferite kaghebe, infestano la zona; in una squallida guardiola tipo portineria sporca e vuota ho contato 8 vopos nullafacenti di cui uno urlava arroganti invettive da un pertugio ai cittadini che si azzardavano a chiedere informazioni. Lì dentro abbiamo vagato a lungo fino ad arrivare dalla parte opposta di una di quelle barriere saldate a gabbia, con la stessa gente urlante da ambo i lati, e non si capiva più chi era dentro e chi fuori, chi libero e chi prigioniero. Abbiamo avuto anche qualche momento gradevole, come quella sera che Alberto ci ha invitato a cena con altri italiani e molte ragazze russe e kazake, e Mauro ha iniziato un feeling incredibile con una Svetlana o qualcosa del genere che gli parlava solo in russo e lui le rispondeva in Italiano che a Modena c’erano buonissime ciliegie, e hanno continuato così tutti abbracciati e un po’ ubriachi per un’ora fintanto che lei se lo è preso e portato via nel buio. Quando l’abbiamo rivisto la mattina era emaciato e pallido, con la voce roca e un po’ confuso. Ad Atyrau , come in quasi tutti i paesi ex Urss, ogni 100 metri c’è una pattuglia di polizia che ferma tutti, comunque, e che si fa pagare il pedaggio. Loro servivano quando c’era ancora il regime per mantenere l’Ordine Assoluto, ed ora che non servono più così numerosi, i vari nuovi Governi per evitare disordini non li hanno licenziati, ma semplicemente non gli hanno aumentato lo stipendio quando la loro valuta è svalutata del 300% così questi si ritrovano a guadagnare l’equivalente di 10.000 lire al mese, e quindi chi non se ne và, per sopravvivere vessa i cittadini. Quattro giorni dopo, dopo aver atteso 4 ore sulla pista con le porte chiuse, aria condizionata spenta, un sospetto via vai di poliziotti, ed un preoccupante getto di kerosene che usciva da un motore lì vicino, un traballante e rumorosissimo Tupolef lasciò la pista di Atyrau diretto a Mosca. Credo il momento più pericoloso di tutto il viaggio. Da lì abbiamo poi proseguito fino a Bangkok e quindi a Krabi dove ero già stato e dove i miei amici hanno finalmente potuto ammirare il mitico Frittomisto Villa che avevano visto solo in internet al sito www.krabiemerald.net . Fritto è perfetto e magico; è stato davvero piacevole passare lì un paio di settimane in compagnia di Stefano; lui era riuscito ad arrivarci fino lì in barca e ci sfotteva pure ma noi, dopo tutto quello che avevamo passato, ci sentivamo comunque davvero in Paradiso.
 

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Commento di: berta il 10-06-2004 10:19
Veramente un gran viaggio ed una grande avventura!!! se non fosse per tutti quei rompicogl..... di vari vigilantes che pretendono il pizzo e ti fanno perdere un sacco di tempo (anche io, ilo, fox e nigo ne sppiamo qualcosa...), ci si potrebbe fare un pensierino...